Lettera aperta a Don Giovanni De Robertis, Direttore generale Migrantes


Lettera aperta a Don Giovanni De Robertis, Direttore generale Migrantes

Egregio Don Giovanni De Robertis,

Sono un cattolico praticante fin dai tempi in cui all’Università, negli anni ’70, testimoniare apertamente e pubblicamente l’appartenenza a Cristo significava rischiare la vita. Del resto, quel coraggio per la testimonianza della Verità mi è stato trasferito dai miei genitori, Profughi Giuliano-Dalmati, che non hanno avuto paura di mostrarlo in una terra diventata comunista.

Dalla nascita, avvenuta nell’insediamento di profughi istriani, fiumani e dalmati sulla via Laurentina a Roma, frequento la S. Messa. Ultimamente mi sono soffermato su una sua meditazione riportata nel foglietto ‘La Domenica’ pubblicato per la XXVI domenica del tempo ordinario. Il Suo contributo ha il titolo: “Che non si tratti solo di migranti?”, reperibile anche al link:

https://www.la-domenica.it/29-settembre-105ma-giornata-mondiale-del-migrante-e-del-rifugiato.html

Il ragionamento da Lei scritto non fa una piega, eppure, in questi tempi, a forza di sentircelo ripetere, non può non sorgere un dolore profondo che la solitudine e la dimenticanza amplificano ancor di più dentro la mentalità comune e cortigiana del pensiero unico così di moda.

“Quando un forestiero dimorerà presso di voi nel vostro paese, non gli farete torto” cita il Suo scritto richiamando il Levitico al capitolo 19. E la domanda non può che sorgere spontanea: “come mai lo ricordiamo solo ora?”.

Lei cita anche un triste fatto accaduto nel 1989, un barbone che morì di freddo a Roma ed una Giunta che quasi si dimetteva, e ricorda anche che lo scorso anno di freddo ne sono morti 12 di clochard, sempre qui a Roma.

Mi domando, dove stavano i benpensanti quando Marinella Filippaz, bimba di pochi mesi, moriva di freddo nel ’56 nel Campo di Raccolta Profughi di Padriciano, sopra Trieste? Dove stavano i benpensanti quando nello stesso CRP prese piede l’epidemia di sucidi delle donne profughe, che andavano ad appendersi agli alberi circostanti i padiglioni, prese dalla disperazione per aver perduto la propria identità?

Parliamo di drammi radicalmente diversi, quello degli odierni migranti e dei Profughi Giuliano-Dalmati, che però hanno in comune l’aver abbandonato il proprio paese, magari, come successo a noi, sotto la pressione della violenza nazionalista ed ideologica.

Quei benpensanti ci classificavano come “gerarchi, briganti neri e profittatori” aggiungendo che non sarebbe mai stato possibile: “considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città” (cfr.: Piero Montagnani, “L’Unità” anno XXIII, N. 284, Sabato 30 novembre 1946). Una vera e propria fake news, si direbbe oggi, costruita ad arte sulla nostra pelle.

Cito un rapporto del 16 aprile del ’47 dei Carabinieri di Cori, in provincia di Latina, come esempio emblematico per descrivere le condizioni di vita di migliaia di persone non straniere, ma italiane espulse dalla propria terra: “Le condizioni economiche e finanziarie delle profughe [le Signore Nerina ed Anna] sono povere. Le medesime non dispongono di risorse e provvedono direttamente alle spese di vitto e alloggio con il ricavato della vendita delle masserizie, effettuate prima del loro esodo da Pola […]. Alla Signora Nerina, vedova di un grande invalido di guerra, è stata assegnata da poco una pensione di 500 lire, non ancora corrisposta. Ha a carico la figliola, di anni 4. Il marito della Signora Anna è stato catturato dalla polizia di Tito il 5 maggio 1945 e deportato in Jugoslavia, non ha dato più notizie di sé” (cfr. R. Panico, L’Unità nazionale nella coscienza di Niccolò Tommaseo e Gabriele D’Annunzio).

Di casi come questo ne potremmo menzionare migliaia, centinaia di migliaia, eppure mai nessuno di noi ha rotto un vetro per protesta né bruciato i pagliericci che ci costruivamo da soli per dormire. Né avevamo Organizzazioni Non Governative che ci venivano incontro quando, a guerra finita, si scappava dalle coste orientali dell’Adriatico per riaffermare la propria libertà e l’identità italiana, semmai avevamo la lieta compagnia delle motovedette jugoslave che mitragliavano le povere imbarcazioni anche in acque internazionali.

Ora, siamo ben contenti che le cose siano cambiate e che la nostra sofferenza, forse, abbia aperto un varco nell’indifferenza endemica di una popolazione distratta e con poca memoria. Del resto la nostra testimonianza, nonostante l’ignoranza di tanti (prelati inclusi) vuole proprio essere un elemento in grado di trasferire un’etica positiva nella nostra società.

Ma una cosa proprio non riusciamo a comprenderla e non ci diamo pace sul perché prestigiose Associazioni come quella da Lei diretta mai ne facciano menzione.

Giustamente tutto il mondo cattolico militante, oggi, si batte per i diritti umani, alla base anche dell’accoglienza. Eppure mai nessuno cita altri diritti altrettanto fondamentali e che ci sembrano ancor più essenziali nella vita dell’uomo. Ovvero, si parla sempre del diritto ad essere accolti per quei sfortunati che fuggono da terre martoriate, così come tutto il politically correct inneggia alla necessità di farci carico di chi arriva, ma mai nessuno riflette sul fatto che così come esiste un diritto all’accoglienza per chi scappa, fugge, emigra, ecc., esiste un altrettanto sacro diritto di una persona a poter morire nella terra dove è nato o a cui appartiene. Così come esiste il diritto a poter far ritorno alla propria terra, alla propria origine ed alla propria identità. Sono diritti citati negli articoli fondativi delle Nazioni Unite e ribaditi in tante dichiarazioni, eppure mai adeguatamente sottolineati da ONG, Governi ed Organizzazioni internazionali.

Forse Lei lo avrà ben presente, ma sarebbe il caso di soffermarsi qualche volta su cosa significhi perdere tutto, proprio tutto, per venir via dal luogo di nascita e salvare così la pelle. Perdere casa, affetti, relazioni, stabilità. Lasciare l’albero dove ci si ritrovava con gli amici per giocare, lasciare i luoghi dove si trascorrevano le giornate e si pianificava il futuro. Abbandonare relazioni, polverizzare famiglie, ecc.

Varrebbe la pena rileggere e far rileggere il passo meraviglioso dell’addio di Lucia alla sua terra così magistralmente riportato da Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi: “Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari;…”.

Finché non lo si prova non si ha idea di cosa significhi sconvolgere la vita di una persona in questo modo.

Dove sono, dunque, i paladini che per i poveri cristi che vagano senza meta e senza speranza nelle nostre città, predicano la dovuta accoglienza? Dove sono questi campioni di umanità quando si deve trattare del problema che è meglio, mille volte meglio, non lasciare la propria terra ma creare le condizioni per una vita serena e duratura lì dove una persona è nata? Quando sentiremo dire che se esiste un diritto ad emigrare (per non dir fuggire e salvarsi la vita) esiste un altrettanto diritto a non emigrare, a restare, a vivere in pace dove si è nati?

Qualche anno fa, prima di una Celebrazione solenne del Giorno del Ricordo avvenuta, in quella occasione, alla Camera dei Deputati, ebbi la possibilità di portare proprio questo tema all’attenzione dell’allora presidente on. Laura Boldrini. Lì per lì, il Presidente non comprese, poi ebbe un sussulto e mi rispose: “ma per fare questo occorre la sensibilità della comunità internazionale”. Risposi con la franchezza e la ragionevolezza che la vita in un insediamento di profughi è in grado di donare: “Beh, se non lo dico a Lei a chi lo devo dire? Se non comincia Lei, che riveste una carica così importante, a sensibilizzare l’ambiente internazionale, chi lo farà?”.

Vedo che a distanza di qualche anno nulla è cambiato. Non entra proprio in testa che un migrante lo è perché non ha scelta e forse sarebbe più contento restare nella propria terra.

Credo che sarebbe molto utile se tutta la comunità nazionale ed internazionale prendesse in considerazione e valorizzasse adeguatamente la nostra esperienza umana, quella delle centinaia di migliaia di persone cacciate da casa propria perché liberamente desideravano affermare una diversità rispetto ad un regime totalitario ed un nazionalismo ùnnico che ci ha portati lontani dalla nostra Terra ma non ha saputo distruggere il nostro amore per essa. Sarebbe bene che la cosiddetta società civile si rimboccasse le maniche e cominciasse a lavorare per dare ascolto non solo ai diritti che in una certa epoca vanno di moda, ma a tutti quelli che riguardano la persona umana, compreso il diritto di poter morire in serenità lì dove ha radici profende la propria identità.

Antonio Ballarin

Presidente della Federazione delle Associazioni degli Esuli Istriani Fiumani e Dalmati