Intervento del Presidente
della Federazione delle Associazioni degli Esuli Istriani Fiumani e Dalmati
dr. Antonio BALLARIN
alla cerimonia del Consiglio Regionale della Regione Liguria
per il Giorno del Ricordo delle Foibe e dell’Esodo Giuliano-Dalmata
10 Febbraio 2018
Signor Presidente,
Signori Rappresentanti del Consiglio Regionale,
Autorità,
Cari studenti partecipanti al Concorso Regionale sul Confine orientale
Gentili signore e signori,
Amici e Fratelli dell’Istria, di Fiume del Quarnaro e della Dalmazia,
Noi oggi, qui, celebriamo una Memoria. Ma non è una memoria di cose che furono ed oggi non ci sono più, è una Memoria per fatti che hanno esteso le loro conseguenze alle generazioni successive. A distanza di settant’anni queste generazioni chiedono che i conti aperti dallo Stato italiano con la storia sulla pelle di gente senza colpa vengano chiusi in maniera definitiva.
In effetti, tale richiesta viene espressa con insistenza da anni e ad ogni ricorrenza solenne viene rinnovata. La nostra è una richiesta civile, che avviene nel rispetto delle regole, com’è sempre stato fin dall’inizio di questa triste storia. Ed è una richiesta, tuttavia, che viene espressa con determinazione e fermezza proporzionali al grande senso di civiltà del popolo istriano, fiumano e dalmata.
Nel 2007 il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, celebrando solennemente il Giorno del Ricordo al Quirinale, così si esprimeva:
«Lo scorso anno il Presidente Ciampi volle che si svolgesse qui la prima cerimonia di conferimento della medaglia del “Giorno del Ricordo” a famigliari delle vittime […] delle foibe, dell’esodo e della più complessiva vicenda del confine orientale. Raccolgo l’esempio del mio predecessore a conferma del dovere che le istituzioni della Repubblica sentono come proprio, a tutti i livelli, di un riconoscimento troppo a lungo mancato. […]
Da un certo numero di anni a questa parte si sono intensificate le ricerche e le riflessioni degli storici […] e si deve certamente farne tesoro per diffondere una memoria che ha già rischiato di esser cancellata, per trasmetterla alle generazioni più giovani […]. Così, si è scritto, in uno sforzo di analisi più distaccata, che già nello scatenarsi della prima ondata di cieca violenza in quelle terre, nell’autunno del 1943, si intrecciarono “giustizialismo sommario e tumultuoso, parossismo nazionalista, rivalse sociali e un disegno di sradicamento” della presenza italiana da quella che era, e cessò di essere, la Venezia Giulia. Vi fu dunque un moto di odio e di furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una “pulizia etnica”.»
Queste parole del Presidente, attese da decenni dalla nostra gente, pronunciate al Quirinale, Casa degli italiani, sembravano squarciare definitivamente la coltre di silenzio accuratamente costruita per tacere la tragedia di un popolo e per mentire, ad un’intera Nazione, che l’Italia, quale Stato aggressore, aveva perso e non di certo vinto la Seconda Guerra mondiale.
In questa menzogna collettiva architettata ad arte, si erano poi taciuti gli eventi che ben conosciamo, ovvero: il pagamento del debito di guerra dovuto alla Jugoslavia dall’Italia, non imponendo nuove tasse a tutto il polo italiano, ma utilizzando i beni privati costruiti da generazioni con lavoro e sacrificio dalla gente autoctona, istriana, fiumana e dalmata, ed abbandonati forzosamente con un Esilio che svuotò per l’85% un territorio abitato da secoli da una popolazione italofona.
Il discorso del 2007 sul Giorno del Ricordo dell’attuale Presidente Emerito arrivò a noi, gente dell’Esodo, come una grande vittoria morale; adeguato compimento di una legge la quale, una volta promulgata, avrebbe generato una nuova coscienza nella società italiana. Un nuovo corso in grado di dare seguito a comportamenti, da parte delle Istituzioni, atti a porre rimedio, finalmente, a tutti quei problemi che ancora oggi si trascinano senza un’adeguata riposta.
La nostra gente si sentiva, finalmente, non più italiani si serie B, ma si illudeva.
Nell’autunno del 2002 in molte famiglie di esuli, si discuteva con fervore dell’iniziativa portata avanti da alcuni parlamentari in merito alla possibilità di avere finalmente una legge dello Stato per la tutela della memoria di uno tra gli eventi più dimenticati, taciuti ed emarginati della storia contemporanea, non soltanto a livello nazionale.
Subito dopo il Natale di quell’anno, nelle strade del quartiere Giuliano-Dalmata di Roma, che mi ha visto nascere e crescere, si cominciò a diffondere la notizia che forse si sarebbe tenuta una manifestazione a sostegno di quell’iniziativa parlamentare per celebrare, legge o non legge, la prima giornata in commemorazione di quel nefasto 10 febbraio 1947.
Così il 10 febbraio 2003, Piazza Giuliani e Dalmati, a Roma, si riempì di tante personalità del mondo della politica e della società civile, insieme a gente semplice di ogni età che aspettava – ed ancora aspetta – il riconoscimento di una storia negata.
Erano presenti persone sia di destra che di sinistra a significare che forse, era finita la stagione delle strumentalizzazioni politica della nostra storia.
Era una festa amara, attesa come si attende l’appagamento per un torto subito ed una vittoria morale, giunta dopo tante pene e troppa attesa. Non era né un risarcimento economico, né politico, né – tanto meno – sociale, ma la pubblica attestazione di una verità.
L’importanza della legge sul Giorno del Ricordo per il popolo Giuliano-Dalmata si comprende pensando semplicemente alla paura più grande che accompagna l’uomo durante tutto il corso della sua vita, quella della solitudine.
La solitudine causa senza dubbio un brutale senso di impotenza in grado di segnare marcatamente e di accompagnare ogni esperienza umana.
La solitudine vera, poi, non è provocata da una costrizione fisica, quanto dalla scoperta che un nostro fondamentale problema non può trovare risposta in noi o negli altri.
La vita di molti uomini e donne che hanno vissuto sulla pelle l’Esodo dalla propria terra per essere ospitati in un’Italia che non sapeva, che non voleva e che, forse, non poteva capire ed accogliere, è stata segnata a vita dal peggior tipo di solitudine esistenziale.
L’emarginazione, l’isolamento, un immenso fossato di divisione con il resto del mondo che non capiva e che, se provava a capire, catalogava e classificava in ingiusti schemi precostituiti le singole realtà vissute, sono state le condizioni di vita di centinaia di migliaia di esseri umani atrocemente soli nella civile Italia della ripresa economica!
Ecco la drammatica essenza ed il destino di chi ha vissuto l’Esodo Giuliano-Dalmata.
Tuttavia, chi pensava di trattarci come si fa quando si mette sotto il tappeto la polvere spazzata, confidenti che, prima o poi, ci si sarebbe dimenticati del dramma, si sbagliava. Allo stesso modo il dissimulare ed il far finta che non fosse successo nulla, si sono rivelate politiche diaboliche ma inefficaci, poiché chi le aveva pensate e messe in atto non aveva tenuto conto della tenacia del nostro popolo e della sua reazione a lungo termine.
La generazione dell’Esodo mise in atto ogni tipo di azione per comunicare il suo dramma e renderne partecipe il resto della società civile, cercando in tutti i modi di sollecitare politici, istituzioni, gente comune, ad azioni per la creazione di un movimento di popolo, non solo istriano e dalmata, ma dell’Italia intera, in grado di prendere le difese di una parte di Nazione che veniva alienata. Dentro il corpo vivo di questo sommovimento sono emersi aspetti che oggi stanno diventando il volto della rinascita della Memoria, secondo un percorso che va dall’Esodo al futuro, ovvero:
1. La percezione che la questione Giuliano-Dalmata sia non soltanto un fatto riguardante gli Esuli e, per contro, i cosiddetti Rimasti.
2. La ridefinizione dell’Esodo nei corretti termini che anche la narrazione biblica sottopone all’attenzione della nostra civiltà e sensibilità umana: esiste un Esodo perché è contemplato un Ritorno, l’arrivo alla Terra Promessa che, nella storia, coincide con quel mondo simbolico, umano e concretamente attingibile dall’esperienza che confluisce nella Memoria, rigenerata e resa motore di nuova crescita, nuova sensibilità civile, nuova conoscenza, dunque nuovo futuro.
Sono questi due fattori che la storia richiede a gran voce agli uomini di buona volontà per la ri-comprensione della coscienza nazionale e la valorizzazione di un’identità, senza la quale non vi è né radice, né prospettiva futura.
La dimostrazione materiale ed oggettiva di questo movimento di popolo di rigenerazione, a partire dall’Esodo, è scaturita proprio dall’atteggiamento di quella stirpe di esuli che rimase incredula nel riscontrare la cecità e la sordità subita e ricevuta dal resto del mondo, a cominciare proprio dalle Istituzioni di allora, non solo italiane, ma internazionali.
È un popolo che, tuttavia, anziché pensare che tutto fosse perduto, seppe trasformare in sale della terra e fermento attivo nella Nazione le esperienze dei più di cento campi profughi in cui si viveva tra mille difficoltà, dentro quell’immane solitudine e con il dolore per la perdita dei beni materiali, degli affetti e delle radici.
Proprio i figli della pulizia etnica seppero trasformarsi – vale la pena richiamarlo con forza – in goccia che scava la pietra, in vero e proprio lievito nella società, la quale reagisce, oggi, a quell’iniquità, mobilitandosi per una causa tutt’altro che morta. Anzi, oggi più viva che mai.
La legge istitutiva del Giorno del Ricordo sana, in parte, l’ingiustizia subita e costituisce il punto di partenza necessario per una ricostruzione identitaria, anche se, la stessa legge, agli occhi di molti esuli, utilizza, per il nostro dramma, la categoria del ricordo, un elemento soggettivo che non pretende la dimensione universale, evocando, piuttosto, la categoria dell’esperienza vissuta, quindi un sentimento, tutt’al più, condiviso o condivisibile.
Ricordo: un impatto sulla coscienza soggettiva ed individuale, da decifrare nel profondo dell’anima, ma non un carico di percezione capace di inscriversi nella memoria comune.
Ma tutta la nostra gente pronuncia Ricordo pensando Memoria, ovvero secondo un concetto che induce radicalmente a pensare e a richiamare fattivamente un’etica.
L’etica generata dalla storia dell’Esodo Giuliano-Dalmata è in grado di penetrare il cuore delle persone che, incontrando la nostra gente ed ascoltano la Memoria di un popolo, si attivano in opere ed azioni a tutela di un’identità sfregiata, ma, oggi più che mai, in grado di creare nuova vita ed una nuova prospettiva.
È di quella generazione sofferente che noi, oggi, continuiamo a coltivare e fecondare i sentimenti ed i pensieri che li avevano accompagnati durante il loro lungo ed amaro percorso umano. Quei sentimenti non sono morti, ma vengono a galla – oggi! – e costituiscono elemento catalizzante per tanta altra gente, esule di seconda e terza generazione, i discendenti ed i connazionali che sentono e vivono quel dramma subito insieme all’urgenza del ristabilimento di verità e di giustizia.
Foibe, esodo, campi profughi, persecuzioni e discriminazioni degli italiani di Istria, Quarnaro e Dalmazia sono parte di una vicenda a lungo taciuta perché fa ancora oggi paura. È temuta dalle coscienze dei nostri carnefici e dei loro discendenti ideologici e fa paura anche alle coscienze di coloro che, sapendo e tacendo, furono complici della nostra pulizia etnica. Quella storia richiama alla responsabilità per un massacro perpetrato in base a categorie umane oggi aberranti ma che, appena ieri, erano indiscusse verità.
E se dunque non si può dimenticare, poiché la verità riemerge sempre, allora si cerca di travisare, giustificare, rendendo vano gli sforzi tesi ad alleviare un dolore che accompagnerà per sempre questa tragedia.
Se da un lato noi, popolo dell’Esodo, testimoniamo con la Memoria della nostra storia un’etica volta all’accoglienza, all’integrazione, al rispetto umano – proprio perché a noi tali categorie sono state negate – se da un lato noi, popolo dell’Esodo, testimoniamo la necessità della costruzione di una società entro la quale la violenza conseguente all’ideologia – come quella da noi subita – non abbia mai più cittadinanza, dall’altra assistiamo a rigurgiti violenti di giustificazionismo e di riduzionismo della nostra storia, che rappresentano una continuazione delle violenze patite, sottomettendo, una volta ancora, la ragione all’ideologia.
Esiste ancora oggi una minoranza chiassosa, ideologicamente battuta dalla storia, ma arrogante, violenta nel pensiero ed incapace all’ascolto ed al confronto, che sostiene tesi, spacciandole per vere, offensive e confutate dalla stessa moderna storiografia.
In pratica coloro che giustificano gli eccidi patiti dalla nostra gente ed il successivo Esodo, pongono le violenze fasciste quale elemento alla base di queste tragedie secondo una costruzione per la quale il fascismo ha generato angherie e crudeltà, la pulizia etnica dell’elemento italiano, quindi, non sarebbe stata niente più che una dolorosa inevitabile conseguenza.
Coloro che ragionano secondo questi canoni analizzano parzialmente la storia, offrendone una narrazione viziata che porta spesso chiunque li ascolti a dare loro ragione.
Innanzitutto, ci domandiamo: ha senso giustificare una reazione violenta ad un’azione primaria anch’essa violenta? Ha senso farlo nei confronti di qualcuno che non era connesso con l’azione violenta originaria?
Già solo l’ovvia risposta a queste banali considerazioni basterebbe a smontare l’impalcatura del giustificazionista. Se così non fosse sarebbe corretto, dal punto di vista logico, giustificare anche gli efferati eccidi nazi-fascisti, come quello delle Fosse Ardeatine, per esempio.
Aldilà di questo banale problema di logica, la cui risposta non può essere, per la natura stessa della logica, diversa a seconda della tragedia considerata, il giusitificazionista permane volutamente nell’ambito confinato dell’ideologia che lo rende cieco di fronte alle più banali osservazioni storiche.
Ha senso giustificare una reazione violenta ad un’azione primaria anch’essa violenta? Ha senso farlo nei confronti di qualcuno che non era connesso con l’azione violenta originaria?
A queste domande sentiamo rispondere con un sì chiaro e deciso, poiché quelle azioni dovevano essere considerate come azioni di guerra, alla stessa stregua di quelle condotte dal crudele Esercito Italiano.
Ma se così è, allora, la nostra domanda banale è: “Perché, dunque, trucidare, annegare, deportare anche dopo la guerra. Anche negli anni ’46, ‘47’, ’48, ’49 e per la prima metà degli anni ’50? Perché farlo a guerra finita?
Nonostante le evidenze che certificano la verità storica non otteniamo risposta a questa domanda, se non una brutale forzatura della realtà.
In questa brutale forzatura viene raccontata una storia non falsa, ma parziale. Tutto comincia con il rogo del Narodni Dom (l’Hotel Balkan), la Casa del Popolo del gruppo etnico sloveno di Trieste, nel luglio del ‘20. Prosegue con i massacri del generale Roatta effettuati durante la guerra e con la tristemente famosa circolare 3C del marzo del ’42, nella quale era scritto: «Non occhio per occhio e dente per dente; piuttosto una testa per ogni dente», in riferimento ai combattimenti con i partigiani slavi. Poi si passa all’occupazione italiana di Lubiana senza tralasciare, da ultimo, i campi di internamento di Arbe e Gonars.
In una tale narrazione chi ascolta è portato autonomamente a dire: “Beh, se le cose sono andate così, è ragionevole che ci siano state le reazioni”.
E le reazioni ragionevoli, mai raccontate dai giustificazionisti, eccole qua. Norma Cossetto, legata ad un tavolo stuprata da 17 persone, scaraventata, insieme ad altri sventurati, nella foiba di Villa Surani con un pezzo di legno nei genitali. Don Angelo Tarticchio, riesumato nudo con una corona di spine sulla testa ed i genitali tagliati e conficcati in bocca. I soldati di stanza ad Ossero, arresisi dopo un combattimento con i partigiani, alla fine dell’aprile del ’45, fucilati in spregio alle Convenzioni internazionali sui prigionieri di guerra e gettati in una fossa comune. La strage di Vegarolla, che causò, a Pola, più di 100 morti nell’agosto del 1946, a guerra più che terminata. Il beato Francesco Bonifacio, picchiato a morte ed infoibato vicino Pirano nel settembre del 1946, martire riconosciuto dalla Chiesa cattolica in odium fidei. Il beato Miroslav Bulešić, croato, ucciso con una coltellata alla gola a Lanischie nell’agosto del 1947, anch’egli martire della Chiesa cattolica in odium fidei. I fratelli Zorovich, giustiziati sul momento, nel 1956, e gettati in mare a largo di Lussino, mentre cercavano di raggiungere l’Italia.
E tanti, tanti altri, infoibati, fucilati, morti per le sevizie, deportati, annegati.
In questo rigurgito giustificazionista c’è qualcosa che non torna. Come può essere che l’odio ideologico abbia causato una simile tragedia?
Ed infatti, l’interpretazione che la nostra gente incarna è di ben altra natura.
Nei libri di scuola fino a qualche anno fa non era scritto nulla circa il Trattato di Pace di Parigi del ’47 e le sue conseguenze. Oggi qualche libro riserva qualche riga, nulla di più. Così non si riesce a delineare il percorso che dal Trattato di Campoformio del 1797 ad oggi ha inciso sullo scacchiere segnato dal Mare Adriatico, per noi elemento di cerniera e mai di cesura.
La storia di ciò che è successo in Istria, Quarnaro e Dalmazia a cavallo della Seconda Guerra mondiale non si capisce se si guarda solo a quegli anni, ma occorre estendere lo sguardo al prima e al dopo. È necessario perlomeno partire dal verbale del Consiglio della Corona asburgica del 12 novembre 1866 nella quale viene riportato:
«Sua Maestà ha espresso il preciso ordine che si agisca in modo deciso contro l’influenza degli elementi italiani ancora presenti in alcune regioni della Corona e, occupando opportunamente i posti degli impiegati pubblici, giudiziari, dei maestri come pure con l’influenza della stampa, si operi nel Tirolo del Sud, in Dalmazia e sul Litorale per la germanizzazione e la slavizzazione di detti territori a seconda delle circostanze, con energia e senza riguardo alcuno»
Queste parole vengono pronunciate a ridosso della Terza Guerra di Indipendenza dell’Italia, persa con l’Austria con le battaglie di Custoza e di Lissa.
La spinta dell’Italia verso est fa reagire l’impero Austro-Ungarico e dal 1866 viene istigato l’odio etnico tra slavi e italofoni. In pratica gli Asburgo ripetono ciò che avevano già compiuto con successo in altre situazioni simili: pongono due etnie una contro l’altra, appoggiando quella più favorevole alla Corona, dando seguito all’inizio della denazionalizzazione degli italiani di Dalmazia, Quarnaro ed Istria.
La slavizzazione cominciò con metodo dalla Dalmazia, un territorio che ha avuto un plurisecolare insediamento latino ben prima che vi giungessero le popolazioni slave. Fin dal II secolo a.C. queste aree erano interamente latinizzate, mentre le prime presenze slave in Dalmazia risalgono, invece, al VII secolo d.C. e rimangono piuttosto deboli sino al secolo XIV.
Lo strumento principale per la slavizzazione della regione fu la cancellazione sistematica della cultura italiana nelle scuole, la croatizzazione dell’amministrazione statale, così come della toponomastica, dell’onomastica e dei cognomi [Luciano Monzali].
A partire dal 1866 finirono con l’essere chiuse quasi tutte le scuole italiane che esistevano in Dalmazia, in una regione in cui, da sempre, la cultura scritta e dotta era stata principalmente od esclusivamente in lingua latina prima, italiana poi. Si finì così con l’avere sole 9 scuole in lingua italiana (tutte a Zara) su 459 complessive.
L’amministrazione statale face uso solo del croato come lingua ufficiale (in un impero dove l’inno nazionale veniva cantato in 18 lingue diverse), vietando ogni forma di bilinguismo.
Nel 1861, tutti gli 84 comuni esistenti nella regione amministrativa della Dalmazia avevano sindaci italiani. Nell’anno 1900 ne era rimasto uno solo, Zara.
La toponomastica dalmata – originaria ed anteriore di gran lunga a quella slava – era italiana sulla costa e sulle isole, slava all’interno, tuttavia, essendo sempre stata quella italiana la lingua di cultura, tradizionalmente anche i nomi croati erano trascritti in forma italiana. Dal 1866 cambiò progressivamente la denominazione dei luoghi, mutando, in croato, i nomi storici delle località.
La snazionalizzazione dei cognomi – trascritti sui libri parrocchiali – andò di pari passo con questo processo ed avvenne principalmente ad opera del clero cattolico, quasi esclusivamente slavo, ad eccezione di Parenzo. Allo stesso tempo sempre il clero utilizzò anziché il latino, la lingua slava nelle celebrazioni, nonostante le proteste della popolazione italiana.
Tra il 1866 ed il 1910 si assistette a tanti atti documentati di violenza e vandalismo contro soggetti italiani, nel tentativo di imporre loro l’assimilazione a favore del gruppo etnico croato, il tutto con la connivenza della polizia.
L’inevitabile conseguenza di tutto ciò fu la rapidissima diminuzione del gruppo etnico italiano di Dalmazia. Un caso emblematico è Lissa, un’isola latinizzata in epoca romana, per secoli esclusivamente popolata da dalmati autoctoni. In epoca napoleonica gli italiani erano l’80%, nel 1880 il 64% (3.292 unità), nel 1900 il 2,4% (199 unità).
Dopo la Prima Guerra mondiale, l’assegnazione dei nuovi confini, in seguito al Trattato di Rapallo, incancrenirono gli attriti tra slavi ed italiani, diventando sempre più marcati, violenti e brutali.
Nel periodo pre-fascista dell’Italia che va dal 1919 alla primavera del ’22 (all’epoca dei governi Nitti, Giolitti e Bonomi), l’archivio della Presidenza del Consiglio dei Ministri registra una teoria lunghissima di azioni violente a sfondo etnico che spesso si confondono con quello politico. Si passa da semplici provocazioni confinarie di slavi verso gli italiani, a reazioni e contro-reazioni, dai fatti di Maresego, presso Capodistria, a quelli di Spalato, per giungere, infine, all’incendio del citato Narodni Dom, assaltato da una folla inferocita, guidata da squadre di fascisti, come reazione per l’uccisione a Spalato di due marinai italiani su incitamento del poeta serbo Lujo Lovrić, definito il Dannunzio dei Balcani. Negli scontri viene tirata una bomba dal Balkan che uccide un carabiniere e la folla incendia il palazzo.
Nel luglio del 1920 la tensione tra Italia e Jugoslavia era alle stelle, tanto che la comunità internazionale, come riportava sia la stampa svizzera che il Politiken di Berlino, dava per scontata un’imminente guerra tra i due Paesi.
All’avvento del fascismo, dall’aprile del ’22, sullo schema del medesimo trattamento subito dagli italiani in Dalmazia, viene dato ulteriore vigore all’operato già cominciato con i governi pre-fascisti nei confronti della popolazione slovena del Carso a Nord di Trieste. Ma la snazionalizzazione fascista dell’elemento slavo – a differenza di quanto avvenne a danno degli italiani in Dalmazia-, non causò lo svuotamento dei territori abitati da quella popolazione.
Il comunismo di Tito è stato il grande ombrello entro il quale trovò ospitalità il nazionalismo slavo.
La violenza, istigata dal verbale del Consiglio della Corona asburgica del 1866, continuata fino al 1914 e, dopo, con gli internamenti nei campi di concentramento nella Prima Guerra, proseguita nel periodo pre-fascista, rinfocolata nel ventennio da una politica fascista incapace di governare minoranze etniche – tanto da rinchiuderle in campi di concentramento allo scoppio della Seconda Guerra, esattamente come l’Austria aveva operato nei confronti degli italiani nella Prima Guerra mondiale – riesplose in tutta la sua drammatica portata dal settembre del 1943.
Tuttavia, il problema che noi, popolo dell’Esodo, registriamo e che non può non essere preso in considerazione, è che tali violenze non si fermarono alla fine della guerra, ma proseguirono ben aldilà del ‘45.
È questo, a nostro avviso, il punto centrale: perché accanirsi con una popolazione inerme dopo la fine della guerra? Perché stigmatizzarla in toto come fascista? Perché cacciarla dalla sua terra? E poi, in Patria, perché obliarne l’esistenza?
Le risposte a queste domande sono molteplici.
Dal nostro punto di vista l’elemento nazionalista a nostro sfavore si intreccia con l’ignoranza in Patria delle vicende dell’Adriatico orientale, insieme all’elemento ideologico dominante alla fine della Seconda Guerra, il tutto in un clima internazionale nel quale era sconveniente, per l’Italia democristiana del dopoguerra, urtare le sensibilità del comunismo Jugoslavo, fuoriuscito nell’ottobre del ’48 dall’orbita dell’Unione Sovietica.
Due documenti rappresentano in maniera emblematica ciò che causò il tentativo di sterminio di un intero popolo.
Il primo è una dichiarazione (mai smentita e mai corretta) di Milovan Gilas, braccio destro di Tito, riportata da Panorama del 21 luglio 1991 in un articolo di Alvaro Ranzoni.
«Ricordo che nel 1946 io e Edward Kardelj andammo in Istria a organizzare la propaganda anti-italiana. Si trattava di dimostrare alla Commissione Alleata che quelle terre erano jugoslave e non italiane […] Non era vero. O meglio lo era solo in parte, perchè in realtà gli italiani erano la maggioranza solo nei centri abitati e non nei villaggi. Ma bisognava indurre gli italiani ad andare via, con pressioni di ogni tipo. Così fu fatto.»
Il secondo è un articolo di Piero Montagnani, uscito sull’Unità il 30 novembre 1946, che ebbe, tra la nostra gente, l’effetto di un macigno posto sulle spalle di una persona già debole e fiaccata.
«Oggi ancora si parla di “profughi” […] Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi.
Questi relitti repubblichini, che ingorgano la vita delle città e le offendono con la loro presenza e con l’ostentata opulenza, che non vogliono tornare ai paesi d’origine perché temono d’incontrarsi con le loro vittime, siano affidati alla Polizia che ha il compito di difenderci dai criminali.
Nel novero di questi indesiderabili, debbono essere collocati coloro che sfuggono al giusto castigo della giustizia popolare jugoslava e che si presentano qui da noi, in veste di vittime, essi che furono carnefici. […].
Aiutare e proteggere costoro non significa essere solidali, bensì farci complici.»
Non ci sarebbe da aggiungere altro, ma invece, purtroppo, non è così.
I due articoli lasciano intendere l’epopea di un popolo abbandonato dallo Stato, massacrato con il criterio noto del colpisci uno per educarne 100, in fuga, non accolto, alla ricerca di una nuova opportunità di vita e che combatte, oggi, per i propri diritti negati in mezzo alla distrazione ed all’indifferenza.
Il primo e più clamoroso diritto è quello di vedersi portar via la propria cultura.
L’impegno delle nuove classi dirigenti croate e slovene, a Zara come a Fiume o in Istria, si rivolse non solo alla costruzione del futuro secondo i canoni del socialismo jugoslavo, ma anche alla riscrittura di una storia da cui la presenza italiana doveva essere confinata come mera parentesi coloniale.
Si è trattato di una classica operazione di invenzione della tradizione, tutt’altro che infrequente nella contemporaneità, ma non per questo meno devastante [Raoul Pupo]
L’operazione è ben descritta da un commento del 1969 dallo storico della letteratura croata Jutrović:
«Gli scrittori della Dalmazia che nel passato scrissero le loro opere in lingua italiana devono essere inseriti nella nostra letteratura e nella nostra storia nazionale poiché essi sono scrittori croati di lingua italiana»
Il metodo utilizzato è preso detto. Una volta falsificati, ovvero slavizzati nome e cognome di uno scrittore, di un pittore, di uno scienziato e di qualsiasi altro personaggio ed accertato che nacque o visse sul territorio che oggi fa parte della Croazia, la sua opera diventa automaticamente croata.
Secondo questa logica, per esempio, Italo Calvino, che nacque a l’Avana, dovrebbe essere uno scrittore cubano di lingua italiana.
Quest’operazione non avveniva solo nel dopoguerra in Jugoslavia, ma anche oggi, come, per esempio, nel 2011 all’inaugurazione del museo dedicato a Marko (con la ‘k’) Polo, da parte dell’ex presidente croato Stjepan Mesić nella città cinese di Yangzhou. Mesić, in quell’occasione, ebbe a ricordare solennemente quel:
«viaggiatore del mondo nato in Croazia che ha aperto la Cina all’Europa».
In questo modo una lista lunghissima di figure della nostra cultura nazionale – da Francesco Patrizi (Frane Petric) a Giorgio Orsini (Juraj Dalmatinac), da Ruggero Boscovich (Ruđer Bošković) a Marino Ghetaldi (Marin Getaldić) – da italiane diventano croate.
Perché la cultura è così importante per il nostro popolo?
Perché la cultura ha il potere di unire una nazione dispersa come la nostra.
San Giovanni Paolo II, diceva nel suo discorso pronunciato all’UNESCO nel 1980 che «La cultura è un modo specifico dell’esistere e dell’essere dell’uomo. La cultura è ciò per cui l’uomo in quanto uomo diventa più uomo, è di più […]. La nazione è in effetti la grande comunità degli uomini che sono uniti per diversi legami, ma, soprattutto, dalla cultura”.
Da quel discorso appare evidente come la cultura sia l’elemento che consente ad una nazione di conservare la propria identità, salvaguardandola nonostante la dispersione dei singoli soggetti. Un’identità vissuta in questa maniera
«non è l’eco di alcun nazionalismo ma rispecchia l’elemento stabile dell’esistenza umana e delle prospettive umanistiche dello sviluppo del uomo. Esiste una sovranità fondamentale della società che si manifesta nella cultura della nazione»
Ecco dunque l’importanza ed il significato della difesa della cultura che ha caratterizzato e che caratterizza il popolo istriano, fiumano e dalmata.
Non è un caso che dentro l’associazionismo Giuliano-Dalmata trovino dimora numerose organizzazioni di stampo culturale. Ed è proprio grazie a queste che, in anni governati ancora dall’ideologia e da rigurgiti nazionalistici, si è potuto ricreare un tenue legame con la Terra d’origine. Legami sottili che rischiano sempre di saltare di fronte ad ideologie e nazionalismi che covano sotto la cenere e che a volte si riaccendono con violenza. Eppure siamo convinti che la comprensione di Istria, Quarnaro e Dalmazia entro i concetti europeistici più sani e vitali consentano, insieme alla civile affermazione di una cultura non manomessa, il rifiorire di una civiltà sottomessa dai giochi di potere fin dal Congresso di Vienna.
Emblematico, a tal proposito, è il riconoscimento conferito ad una nostra grande personalità del mondo dell’esodo (Amleto Ballarini, presidente onorario della Società di Studi Fiumani), la più alta onorificenza dell’odierna Città di Fiume-Rijeka. Tutto ciò è prova del nostro operato, teso a valorizzare gli elementi di unione nonostante il male, la dimenticanza e la sofferenza che ci sono stati inflitti.
Che la cultura sia la chiave di volta con la quale mantenere un’identità e ricostruire percorsi di civiltà è chiaro anche allo Stato italiano, proprio quello Stato che ci è debitore per molti dei diritti ancora in attesa di essere ristabiliti.
In questi ultimissimi anni non possiamo negare una certa maggior attenzione dello Stato italiano nei confronti delle pendenze aperte con la nostra storia, ma la strada è ancora lunga ed a volte sembra quasi di essere in relazione con funzionari dello Stato ostili, affetti da pregiudizi nei nostri confronti, non edotti su trattati e leggi che hanno definito la nostra vicenda umana e, peggio, distratti e/o indifferenti per il fatto che ancora lo Stato ci debba molto.
Esiste un Tavolo di coordinamento tra Governo ed Associazioni degli Esuli attivo alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Abbiamo dovuto aspettare tra una convocazione e la successiva, 25 mesi, dal febbraio 2015 al marzo 2017. In questo lungo lasso di tempo, abbiamo sollecitato decine di volte la riconvocazione per definire una volta per tutte le questioni aperte.
I punti dei quali parliamo sono:
Il risarcimento definitivo dei nostri Beni Abbandonati, utilizzati dallo Stato per pagare il suo debito di guerra con la ex-Jugoslavia in violazione di quanto stipulato nei Trattati internazionali.
La consegna della Medaglia d’Oro al Valor Militare alla città di Zara, la città italiana bombardata 51 volte dall’aviazione Alleata e con il maggior numero di vittime civili nella popolazione. Medaglia assegnata dal presidente Ciampi ma mai consegnata.
L’esecuzione dell’Accordo di Roma del 1983, ovvero l’attuazione completa del Trattato di Osimo.
L’inserimento dell’argomento Trattato di Pace del 1947 nei libri di testo e nei piani formativi della Pubblica Istruzione.
La definitiva risoluzione dei problemi anagrafici che vedono, a volte, configurare una nostra persona nostra nata in un Comune che fu italiano come extracomunitario.
Le onoranze ai caduti, ovvero la possibilità di tirare fuori dai luoghi dove furono assassinati i resti di chi è ancora rimasto senza degna sepoltura o, per lo meno, la possibilità di onorare quei luoghi (impedita, di fatto, ancora oggi) indicandoli con lapidi multilingue.
La proroga del periodo temporale che assegna le onorificenze ai congiunti degli infoibati, al fine di estendere l’orologio delle stragi che si ferma al 1950.
La cancellazione della tassa per gli immobili acquisiti all’estero per la nostra gente che dopo una vita di sacrifici si ricompra il bene espropriato all’epoca.
Ed infine, ultimo, ma non meno importante, l’attuazione, con minori vincoli burocratici della legge che tutela il patrimonio storico e culturale delle comunità degli Esuli dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia, la 72 del 2001.
Questa legge, infatti, è cruciale proprio per il ruolo che la cultura gioca nel delicato ecosistema che si estende a cavallo tra le due sponde dell’Adriatico. Ebbene, oggi, febbraio 2018, siamo in attesa degli anticipi per i progetti del 2013!
È proprio questa la negligenza che noi, popolo dell’Esodo, attribuiamo alla classe politica ed alla burocrazia.
Se da un lato manifestiamo soddisfazione per l’attenzione che alcuni organi dello Stato centrale ci riservano (come nel caso del Ministero degli Affari Esteri, dei Beni Culturali, dell’Istruzione, della Difesa), dall’altro evidenziamo ancora ostilità, pregiudizio ed indifferenza.
Noi crediamo che questi atteggiamenti, che le Istituzioni non si possono permettere nei nostri confronti, siano gli strascichi della coltre di silenzio e di menzogna con la quale si è negata per anni la nostra storia.
Eppure, in questi anni, si è passati da un silenzio semplicemente disumano alla riscoperta dei peccati e delle omissioni di intere classi intellettuali e politiche. La nostra storia ha progressivamente scavato nel cuore delle persone oneste che credono pervicacemente in quell’undicesimo comandamento che recita il precetto: non dimenticare.
La Memoria è uno degli elementi costitutivi di una civiltà laica, evoluta e civile, sana e aperta al senso religioso. Fermarsi soltanto al Ricordo non fa progredire nessuno. Anzi, si tratta di uno sterile rimpianto del tempo che fu.
La legge che istituisce il Giorno del Ricordo ha permesso non solo un arricchimento spirituale, a beneficio dell’intera Nazione, ma anche la costruzione di prospettive future. Un evento sorprendente registrato in tal senso, proprio in questi anni, è il fatto che le nostre comunità, anziché diluirsi e perdere forza, come era nelle intenzioni dei governanti dell’epoca, sono cresciute, impegnandosi progressivamente per la rinascita di un positivo senso di appartenenza, largamente depotenziato e svuotato, spesso anche deriso, nella stessa Italia.
Il Giorno del Ricordo non è un punto di arrivo, ma di partenza. Da bravi e tenaci eredi di una civiltà nobile, colta, aperta e briosa, ci rimbocchiamo le maniche e ricostruiamo, non semplicemente le case squassate da un terremoto, ma la stessa vita. Ricostruiamo la nostra identità, la nostra appartenenza viscerale ad una Terra.
Il nostro desiderio è di essere un unico Popolo tra esuli e comunità ancora oggi presenti ‘di là dal mar’, affinché tale Popolo viva senza più aver paura di usare la propria lingua, la propria storia, la propria civiltà, la propria cultura e venga, una volta per tutte, riconosciuto alla pari di tante altre etnie della nostra nazione, meravigliosa e pluri-millenaria.