Ritornare si può


Ritornare si può

Ritornare è possibile? I presupposti del ritorno culturale in Istria, Fiume e Dalmazia per le seconde e terze generazioni degli esuli”.

Si è tenuto a Trieste il Convegno PRESUPPOSTI E CONDIZIONI PER UN “RITORNO CULTURALE”. I CONTORNI DEL PROGETTO. (vedi: Programma Convegno – Ritorno Culturale)

Di seguito pubblichiamo il testo dell’intervento del presidente di Federesuli Dott. Antonio Ballarin:

Un Ritorno possibile al di là di una geopolitica imposta

Un Ritorno possibile al di là di una geopolitica imposta

L’11 dicembre 1948 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvava la Risoluzione n. 194 che sanciva il Diritto al Ritorno dei profughi palestinesi nelle loro abitazioni in seguito alla Guerra Arabo-Israeliano dello stesso anno.

Una commissione mista, in rappresentanza degli Stati del Consiglio di Sicurezza, composta da: Cina, Francia, Unione Sovietica, Regno Unito e Stati Uniti d’America, aveva elaborato un testo sulla base del lavoro svolto da Folke Bernadotte conte di Wisborg, assassinato proprio nel settembre del ’48, a Gerusalemme da un gruppo sionista.

Bernadotte era stato un politico diplomatico e filantropo svedese, noto per aver negoziato e ottenuto la liberazione di circa 31.000 prigionieri dai campi di concentramento tedeschi durante la Seconda guerra mondiale e, dopo il conflitto, assunse il ruolo di mediatore delle Nazioni Unite nella controversia israelo-palestinese.

Il Diritto al Ritorno è oggetto di studi, dichiarazioni ed attività politiche internazionali, contrasti, a volte feroci, ma parte e prende spunto unicamente dalla questione palestinese, ovvero dai 700.000 profughi della guerra del ’48.

Sembra un caso – ma di certo non lo è – solo un giorno prima, cioè il 10 dicembre 1948, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, nella sua terza sessione, votava, a Parigi, con 48 Stati membri su 58, la risoluzione 219077A, che promulgava la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, dove si legge, all’articolo 13, comma 2: «Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese».

Il medesimo concetto viene ripreso in diverse altre dichiarazioni approvate nel circuito delle Nazioni Unite. Per esempio, nella Dichiarazione di Vancouver del ’76 (Report Habitat I), è previsto «il ritorno delle persone alle loro case» come elemento inalienabile della persona umana.

Nonostante queste importati, significative e pregnanti dichiarazioni e risoluzioni della Comunità internazionale, è impossibile non osservare la totale non applicazione di tali principi in merito alla questione Giuliano-Dalmata.

Un indicatore eloquente è di certo costituito dalla natura e dalla composizione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che promulgò il Diritto al Ritorno: era composto interamente dalle potenze che uscivano vincitrici dalla Seconda Guerra mondiale. In tale contesto l’assegnazione definitiva di Istria, Quarnaro e Dalmazia alla Jugoslavia, inizialmente satellite dell’URSS e, successivamente, da non far irritare dopo la sua uscita dal Cominform, costituiva elemento guida in una politica senza alcun tipo di scrupolo nei confronti dei Profughi Giuliano-Dalmati.

La stessa palese e scandalosa violazione del Trattato di Pace di Parigi del 10 febbraio del ‘47, dove veniva esplicitamente dichiarato che i beni e gli interessi dei cittadini italiani residenti nei territori ceduti avrebbero dovuto essere rispettati, non può non far intendere che, loro malgrado, i cittadini autoctoni della Venezia Giulia e della Dalmazia, si ritrovarono dentro un colossale conflitto geopolitico giocato cinicamente sulla loro pelle. Un conflitto dove è del tutto evidente come lo Stato italiano abbia agito sotto dettatura dei potentati dell’Alleanza Atlantica.

In ultima analisi, il Diritto al Ritorno ha validità per una certa classe di profughi ed ha validità diversa, o decisamente inferiore, per altri, come gli istriani, i fiumani ed i dalmati.

Ma il problema non si è limitato alla perdita di beni ed affetti, la Federazione Jugoslavia, vincitrice del conflitto, ha scientemente agito come un Caterpillar in una cristalleria nei confronti della storia e della cultura ultra millenaria della costa orientale dall’Adriatico.

A tale proposito basti citare l’articolo di Giacomo Scotti: La letteratura italiana in Dalmazia: una storia falsificata, pubblicato sui Quaderni di Storia Giuliana (a. XXIII, 2002, 1), dove viene riportato nel dettaglio il metodo e gli effetti della riscrittura di una storia da cui la presenza italiana o italofona doveva essere soppressa e/o sostituita con metodi di pura invenzione della tradizione.

Il metodo utilizzato è noto a tutti e non solo agli studiosi: una volta croatizzati, ovvero falsificati, nome e cognome di uno scrittore, di un pittore, di un musicista e di un qualsiasi altro personaggio ritenuto significativo (ma anche di gente comune), ed accertato che nacque o visse sul territorio che oggi fa parte della Croazia, la sua opera diventa automaticamente croata.

Secondo questa logica perversa, per esempio, Italo Calvino, che nacque a l’Avana, dovrebbe essere considerato un insigne scrittore cubano di lingua italiana.

Lo sradicamento culturale non ha solo coinvolto personaggi importanti della storia di Istria e Dalmazia, ma è continuata con la cancellazione progressiva e sistematica della odonomastica e della toponomastica. In questo modo, luoghi noti come Sansego anche agli abitanti di lingua croata o ciakava dell’Adriatico orientale (nonché, dai locali residenti di quella stessa isola), venivano trasformati in un improbabile Susak, ovvero in invenzioni architettate per mantenere un suono lontano da qualsiasi cosa potesse apparire anche vagamente italiana.

Ed ancora, nell’impossibilità di rappresentare una storia ‘sul’ territorio, si riempivano piazze e strade di opere contemporanee – belle ma fuori contesto – tanto per affermare l’immanenza di una presenza posticcia – come nel caso delle statue di Ivan Meštrović posizionate un po’ dappertutto nell’antica Ossero, punto di snodo dei traffici marittimi di Roma fin dal 167 a. C. -, oppure, venivano costruiti casermoni stile socialismo reale in borghi ed insediamenti dove il palazzo più moderno era di epoca asburgica.

Insomma, si potrebbe dire che per la storia e la cultura di Istria e Dalmazia, alla sconfitta dell’Italia, è seguita una damnatio memorie in stile Attila.

Di fronte ad uno scempio così profondo le Comunità autoctone hanno costituito una sorta di silenziosa resistenza ad uno strapotere che tollera(va) con sufficienza una presenza scarsamente gradita.

Nonostante ciò, fin da prima della caduta del Muro di Berlino, inizialmente alcuni Esuli in maniera singola, poi ‘famiglie’ di una stessa città ed infine Associazioni del mondo dell’Esodo, hanno ripreso i contatti con la Terra di origine, ovvero con la propria radice profonda.

Come è stato precisato in tante altre occasioni, esiste un attaccamento viscerale dell’Esule alla Terra a cui appartiene (si noti la differenza, non si tratta della ‘sua’ terra, ma la Terra di cui egli è).

Si tratta di un attaccamento viscerale ed imprescindibile perché ne va della propria identità. Si possono perdere affetti e beni, ma una volta perdute le radici, si perde anche la coscienza della propria anima. E deve essere per questo motivo che, nonostante le difficoltà, le discriminazioni, l’oggettivo dolore per lo sradicamento, il mal sopportato ultranazionalismo di Stato e Chiesa locale sciorinato ad ogni piè sospinto, l’Esule od il suo discendente (ereditando la medesima identità), ritorna.

Lo sfaldamento della Federazione Jugoslava, le successive guerre e l’entrata di Slovenia e Croazia in seno all’Unione Europea, hanno disegnato prospettive impensabili per la prima generazione dell’Esodo, quella che fuggiva dalla violenta persecuzione anti-italiana e che mai avrebbe pensato che le cose potessero cambiare. Non lo pensava, tant’è che quella generazione aderì in massa al programma ‘beni abbandonati’, colossale truffa architettata con maestria dallo Stato italiano per pagare con soldi non propri il debito di guerra.

Ma aderendo al programma ‘beni abbandonati’, oggi, l’Esule che torna non sa dove andare, non ha una casa, viene chiamato ‘gradito ospite’ con un ghigno perverso e beffardo dalle odierne autorità, non viene riconosciuto come figlio di quella Terra diventata grande anche per il sacrificio immane ed ingiusto patito nella sua storia.

Eppure, l’amore viscerale ed identitario del mondo dell’Esodo per la Terra a cui appartiene, seppure con amarezza, è stato capace di costruire una rete di relazioni che lega, come in una ragnatela tessuta con un sottile filo d’oro, rapporti ed interessi, affetti e progettualità nati in maniera spontanea e non organizzata, né, tanto meno, pianificata.

La diaspora, improvvisamente, si è ritrovata ad essere una delle due anime di un popolo diviso e maltrattato fin da Campoformio, fin dalla caduta della Repubblica di Venezia. Per contro le Comunità autoctone pongono un problema a loro stesse interrogandosi sulla loro radice e sulla prospettiva che vada al di là del folclore.

In un’Europa che finalmente comprende, oggi, la devastante potenzialità dei nazionalismi, le Comunità di Esuli e le Comunità autoctone, insieme, rappresentano una preziosa cerniera tra mondi che confinano.

Se da un lato è possibile segnare ancora ribollii sciovinisti che non possono lasciare del tutto tranquille le coscienze alla ricerca di una pacifica convivenza nell’accettazione della reciproca diversità (basti pensare alle reazioni fuori luogo registrate da ambo le parti per il centenario dell’impresa fiumana di D’Annunzio), dall’altro non si contano più le iniziative comuni tra mondo dell’Esodo e Comunità autoctone.

Il tutto in barba a trattati di reciproco rispetto mai rispettati, come, per esempio, il Dini-Granić. Non c’è bisogno che un’autorità esterna intervenga per fare in modo che un gruppo di esuli ed un gruppo di rimasti si metta insieme per fare cultura, per fare progetti, per fare iniziativa. Succede e basta, con buona pace di chi pensava che fosse tutto finito.

Nei progetti che le Associazioni degli Esuli aderenti alla Federazione sviluppano anno dopo anno, con gran fatica per la burocrazia imposta, si registrano eventi sempre più frequenti dove un senso di appartenenza comune tra esuli e rimasti emerge con ancor maggiore significatività. Come se il mondo dell’Esodo rappresentasse un’anima profonda di un popolo ed i rimasti si sentissero investiti nella necessità di una possibile prospettiva, impensabile fino a qualche anno fa.

Così accade che la fantasia del ‘fare’ fa partire senza strombazzamenti un progetto per l’acquisto di una lavagna multimediale da installare e far funzionare in un ‘asilo italiano’ di Lussino, dove però le maestre sono di lingua croata e per questo motivo la lavagna multimediale si collega con un’altra lavagna in un altro asilo italiano per poter far giocare insieme, in questo strano ed innovativo modo, bambini a distanza.

Oppure accade che, sempre la medesima fantasia del ‘fare’, promuova concorsi, per mezzo dell’iniziativa Mailing List Histria, dove, a fronte di finanziamenti sempre troppo scarsi, centinaia di ragazzi coltivano il desiderio di scrivere un tema in italiano per poi potersi riunire e confrontare con un mondo dell’Esodo che supporta e facilita la divulgazione non solo della lingua o dell’importantissimo dialetto, ma anche della storia, delle usanze, della gastronomia (gran segno si cultura) ed, in ultima analisi, della fratellanza.

Da simili piccole, germinali, iniziative, nasce un movimento sempre più corposo e diffuso di gemellaggi tra scuole ‘di qua e di là dal Mar’, viaggi studio, scambi di esperienze e conoscenze. Viaggi di ragazzi italiani che intraprendono le strade del Ricordo, per poi atterrare in luoghi dove sarebbe bello poter vedere locande ed ostelli affollati, ‘dentro’ le nostre Comunità autoctone. Viceversa, viaggi di ragazzi delle Comunità autoctone che intraprendono percorsi per conoscere chi siano loro stessi, nel confronto con gente che ama la medesima Terra, eppure è distribuita in tutta Italia e per il Mondo.

Il prossimo passo non può che essere uno sforzo che veda la creazione di posti di lavoro in lingua italiana e/o in dialetto nella nostra Terra. Non può che tramutarsi in ‘percorsi formativi’ per studenti delle nostre Comunità autoctone a favore di una imprenditorialità che, in Italia, comprenda che in Istria, Quarnaro e Dalmazia non esiste una barriera linguistica, ma esiste invece, una grande cultura.

È compito nostro, di Esuli e di Comunità autoctone, anche per mezzo di un prezioso Convegno come questo, rimboccarci le maniche, come abbiamo fatto per secoli e come stiamo facendo da ben prima del novembre del 1989, e progettare il futuro della Terra nostra.

Antonio Ballarin,

Presidente FederEsuli